
Una recente ricerca ha dimostrato che sono la sensazione di fatica e di dolore a impedirci di superare i nostri limiti fisici. Perciò è la nostra mente a fermarci, molto prima del nostro corpo. Tuttavia con uno specifico allenamento mentale è possibile superare i limiti e spingerci oltre.
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A dirlo è stato Samuele Marcora, direttore di ricerca presso la Scuola di Sport e Scienze Motorie dell’Università di Kent in Inghilterra.
Marcora ha iniziato con uno studio sull’impatto di un cervello stanco sulle prestazioni atletiche. Da questo studio è emerso che un cervello stanco può avere un impatto sulle prestazioni atletiche quasi quanto l’esaurimento muscolare. L’articolo, intitolato “La prestazione mentale danneggia la prestazione fisica negli esseri umani“, è pubblicato sul Journal of Applied Physiology.
Le implicazioni da questa scoperta sono enormi. Se la fatica è radicata nella percezione ed è tutta nella nostra testa, allora si può allenare la mente per gestirla. Questo apre nuove frontiere sul miglioramento delle prestazioni. L’allenamento mentale diventa un elemento chiave nella preparazioni degli atleti, poiché l’allenamento mentale può migliorare le prestazioni.
Questa forza mentale, Marcora la chiama modello psicobiologico di tolleranza allo sforzo. Il modello psicobiologico unisce i campi della psicologia e della biologia rivedendo la teoria del “governatore centrale”, attribuito al sudafricano fisiologo Tim Noakes.
Noakes sostiene che la fatica è un fenomeno in gran parte fisico. La fatica si verifica quando al cervello arrivano i segnali che i muscoli sono esauriti e che sono senza benzina. In altri termini, secondo Marcora, quando i fisiologi parlano di cervello, lo considerano un centro deputato alla stanchezza. Il cervello è considerato solo in funzione della fatica del “motore”, il corpo appunto.
Il punto è proprio questo, la fatica è tutta nella nostra testa! Gli atleti devono capire che possono andare avanti anche quando il cervello ha iniziato a dare segnali di fermarsi!
Secondo Marcora la percezione è un meccanismo che ti rallenta ancor prima che tu abbia raggiunto il tuo limite biologico. Gli esperimenti dimostrano che spesso non c’è ragione alcuna per sentire il lavoro fisico più duro. Una cosa è certa: se il cervello è affaticato, ti darà informazioni che stai facendo uno sforzo massimale. Ti dirà che quindi è ora di fermarti.
Per dimostrato quanto teorizzato, nel 2010 Marcora ha progettato un esperimento con un gruppo di giocatori di rugby. Li scelse perché ritenuti soggetti forti.
Dall’esito dello studio è emerso che i giocatori di rugby, dopo essersi dichiarati sfiniti, se richiamati subito alla prova, riuscivano a esprimere valori di potenza tre volte più grandi rispetto a quelli che non riuscivano a mantenere pochi attimi prima.
Marcora ha quindi descritto lo stato di sfinimento dell’atleta come una forma di ritiro dallo sforzo, piuttosto che di un fallimento fisico. Sostanzialmente i giocatori di rugby si dichiaravano sfiniti perché lo sforzo nel tempo superava il massimo dello sforzo che erano disposti a sopportare, oppure perché mentalmente non pensavano di poter mantenere ancora tale intensità di sforzo.
Proprio in base a questo esperimento, emerge il ruolo che ha la mente, sotto forma di percezione dello sforzo, nell’esercizio fisico. Se la mente agisce come “stopper”, il corpo si ferma anche se in realtà non ha raggiunto il vero massimale di fatica.
Sia chiaro, le ricerche di Marcora non dicono che la fatica sia completamente immaginaria, ma che con un allenamento mentale, è possibile avvicinarsi al limite fisico.
Perchè alcuni esperimenti hanno dimostrato, ad esempio, che le esperienze positive durante un allenamento hanno migliorato la percezione dello sforzo. Tale miglioramento avvenne senza che vi fosse alcun cambiamento a livello fisico.
Sicuramente entrambe le esperienze, del corpo e del cervello, sono reali fattori di sfinimento dell’atleta. Questo è il punto che l’atleta deve capire.
Deve capire che può andare avanti anche quando il suo cervello gli ha dato segnali di fermarsi. Questo significa che con un buon allenamento mentale gli atleti possono migliorare le proprie prestazioni.
Infatti quasi ogni esperienza positiva può migliorare la percezione dello sforzo.
Cerchiamo ora di capire come un’esperienza positiva possa migliorare la percezione dello sforzo.
In uno studio condotto presso l’Università di Northumbria in Inghilterra, i ricercatori hanno fatto correre dei giovani uomini eterosessuali fino a esaurimento delle energie su un tapis roulant.
Verso la fine dell’esercizio, gli scienziati hanno fatto interagire una parte dei soggetti con un’attraente assistente di laboratorio di sesso femminile, mentre la restante parte con un assistente di sesso maschile dal fisico atletico.
I soggetti che hanno interagito con la donna, hanno ottenuto costantemente risultati migliori e punteggi più alti rispetto a coloro che hanno interagito con l’uomo. A quanto pare, la mente di un uomo, è in grado di accedere a riserve di energia, anche quando si trova su un punto di esaurimento muscolare, se motivato da attrazione.
In accordo con questo studio, ne arriva uno nuovo degli psicologici della Brock University che dimostra come il monologo interiore che corre nella nostra testa mentre compiamo uno sforzo, influenza direttamente l’esito della stessa.
In particolare, nell’esperimento, un campione di ciclisti è stato diviso in due gruppi. Entrabi i gruppi dovevano pedalare in un ambiente a 35°C fino a esaurimento muscolare. Dovevano mantenenere una certa potenza di pedalata, e sottoporsi successivamente ad una serie di test cognitivi.
I risultati hanno permesso di mettere in evidenza che gli apparenti e immutabili limiti fisici sono attualmente governati dal nostro cervello, e che con semplici cambiamenti possiamo andare oltre questi limiti.
Uno dei due gruppi è stato opportunamente sottoposto ad un allenamento mentale. L’allenamento mentale aveva l’intento di modificare il monologo interiore dei soggetti durante la prestazione attraverso specifiche metodologie psicologiche. Questo gruppo ha imparato a sostituire pensieri del tipo “sono bollito” o “è così caldo qui” con pensieri del tipo “spingi di più, stai andando bene“.
Ebbene lo studio ha dimostrato che i soggetti del gruppo che hanno modificato il proprio monologo interiore durante l’esercizio, hanno svolto una prestazione nettamente superiore rispetto ai soggetti del gruppo di controllo che non sono stati allenati mentalmente.
Questa può essere vista come un’altra conferma che la fatica è nella nostra testa e del ruolo che gioca l’allenamento mentale sulle nostre prestazioni.